martedì, aprile 19, 2011

RIVALUTARE IL LAVORO MANUALE

I ragazzi italiani

Dario Di Vico

Corriere della Sera
19 aprile 2011

C'è un nesso tra la rivalutazione del lavoro manuale e l'uscita dalla crisi? Penso di sì e proprio per questo motivo la riapertura di una discussione pubblica sulla (mancata) propensione dei giovani a misurarsi con la manualità ha senso. Di trimestre in trimestre, quando affluiscono i dati sulle esportazioni italiane si ha la netta sensazione che il modello di specializzazione dell'industria italiana abbia retto alla Grande Crisi. Non è poco e l'esito era tutt'altro che scontato, il pensiero corrente sosteneva che il manifatturiero avrebbe pagato alla recessione un tributo decisamente maggiore. Invece riusciamo a reggere e, checché ne dicano le improvvisate analisi dell'Economist, i nostri distretti hanno ripreso a vendere sia sui mercati tradizionali (Europa e Usa) sia su quelli emergenti, Cina in primis.
Ce la stanno facendo un po' tutti, non solo gli straordinari vini delle Langhe, del Roero e del Monferrato ma stanno reagendo anche distretti come quello dei casalinghi di Lumezzane, per i quali era stato già intonato il de profundis. Per dirla con uno slogan le nostre piccole e medie imprese si stanno ri-specializzando, stanno innovando in corsa e per farlo contaminano la cultura manifatturiera con quella dei servizi. Questo processo di modernizzazione richiede tanto lavoro, flessibile e allo stesso tempo creativo. C'è bisogno di sarti, falegnami, maestri vetrai, progettisti, manutentori. E per ciascuna di queste specializzazioni c'è bisogno del contributo di giovani che siano «nativi digitali» e aiutino i loro padri ad allungare le reti di impresa.
Non è vero, dunque, che tutto il lavoro nell'epoca della globalizzazione sia debole, anzi. Il made in Italy richiede una fusione tra vecchie e nuove professionalità ed esalta quindi il potere negoziale del tecnico-artigiano. Chi ha girato Milano in questi giorni del Salone del Mobile non farà fatica a capire di cosa stiamo parlando. La domanda e i dubbi, caso mai, riguardano il sistema formativo. Dai territori periodicamente arrivano notizie contraddittorie: troppi istituti tecnici legati ai distretti industriali soffrono di una crisi di vocazioni e questo avviene a Gallarate per l'aeronautica come a Manzano per la lavorazione del legno. Le scuole tecniche sono alla base del miracolo tedesco e da noi invece sono lasciate a se stesse. Non è un caso che i cinesi spingano per iscriversi in queste stesse scuole perché hanno voglia e fretta di apprendere il meglio della cultura manifatturiera italiana.
Però se vogliamo davvero riorientare le scelte dei nostri ragazzi non possiamo fare della retorica a buon mercato. È giusto che il governo, e più in generale la politica, su una materia come questa parlino chiaro alla società, ma allora si devono impegnare a fondo. Non si può solo deprecare la mancata virtù dei giovani, bisogna persuadere. In primo luogo le famiglie, le stesse che perpetuano una tendenza nociva alla licealizzazione e al successivo conseguimento di lauree deboli. Non è più tempo per poter sbagliare, l'orientamento scolastico deve far parte di un'efficace azione di governo. Poi bisogna parlare ai ragazzi e spiegare loro che una scelta giusta non solo va a vantaggio dell'inserimento nel mondo del lavoro ma contribuisce a rafforzare la loro personalità. Ad evitare quella «corrosione del carattere» dovuta al precariato, magistralmente descritta già dieci anni fa da Richard Sennett.
Per spiegare tutto ciò arruoliamo pure i testimonial più trendy. È un'ottima causa.

lunedì, aprile 18, 2011

Come si può sperare in questo PD? serve cultura, servono competenze per capire i problemi e provare a individuare soluzioni! Basta con il pressapochismo!




L’effetto è quello della macchina del tempo: un attimo prima pensi di essere nel ventunesimo secolo, nel mezzo di una crisi finanziaria e del debito pubblico, poi Fausto Raciti apre bocca e all’improvviso si torna all’Ottocento, o almeno agli anni Settanta. Fausto Raciti, in teoria sarebbe giovane, classe 1984, segretario di un’entità misconosciuta, i Giovani democratici che per chi non lo sapesse sono i giovani del Partito democratico (ebbene sì, esistono). Ho avuto il piacere di ascoltarlo ieri, al Festival del giornalismo di Perugia, e sono rimasto ipnotizzato: “Questo non può essere un mio coetaneo, è impossibile che a 26 anni parli come un segretario di sezione del Pci”. Sembra uscito dal film di Nanni Moretti, “La Cosa”, il documentario sulle crisi dei miliatanti comunisti dopo la svolta della Bolognina nel 1989, quando io e Raciti eravamo all’asilo.

Si parlava di giovani, precari, lavoro. Con la pessima abitudine dei politici consumati di eludere le domande su cui non è preparato, dopo una lunga quanto inutile lista di slogan sulla scuola pubblica, Raciti ha regalato allo scarso pubblico la sua ricetta di politica economica per far uscire l’Italia dalla crisi. Che si può riassumere così: alzare le tasse, aumentando le aliquote sulle plusvalenze finanziarie (senza ridurle altrove), assumere tutti i precari della scuola (con quali soldi? Mistero, tanto Raciti sta all’opposizione), emettere eurobond, cioè debito pubblico europeo per fare più spesa pubblica contro la crisi, ferma opposizione a ogni ipotesi di contratto unico e di tutele crescenti per chi entra nel mercato del lavoro, ovviamente nel nome del sacro totem dell’articolo 18. Che riguarda meno della metà dei lavoratori italiani e quasi nessuno di quelli che cominciano a lavorare. Al democratico Raciti questo non importa, tanto che sconfessa ben tre proposte di legge fatte dal suo partito (quelle di Pietro Ichino, di Paolo Nerozzi e di Marianna Madia).

Mi trattengo, più o meno, fino a quando si apre il dibattito. Faccio notare a Raciti che impostare ogni risposta alla crisi, sempre ammesso che ci sia qualcosa di concreto sotto gli slogan, su un aumento di tasse e spesa pubblica oltre che impopolare è anche inutile, semplicemente non si può fare. Proprio nel giorno in cui la Banca d’Italia calcola che serviranno manovre da 40 miliardi all’anno per (provare a) rispettare i vincoli europei sul debito pubblico. Gli ricordo che gli eurobond sono appena stati bocciati da un Consiglio europeo, istituzione che conta più di un direttivo dei giovani democratici. Per quanto riguarda i ragazzi precari o disoccupati, sembra di capire, l’unica idea di Raciti è stare seduti ad aspettare che le cose migliorino e che all’improvviso tutti gli imprenditori assumano a tempo indeterminato, oppure che lo Stato imponga la stabilizzazione di tutti i precari per legge. Il suo commento? “Questo conferma la mia opinione che il Fatto Quotidiano è un giornale di destra”.

Mi resta un unico dubbio alla fine del dibattito (o presunto tale, perché, fosse stato per Raciti e gli altri, inclusa il ministro Giorgia Meloni che al confronto sembrava una statista di vaglia, delle domande si sarebbe fatto a meno). Non capisco perché il Giornale, Libero, il Tg1 e il Tg2 non intervistino Raciti ogni santo giorno. Se facesse a tutti lo stesso effetto che ha fatto a me, di voti al Pd ne resterebbero ben pochi. Dopo un’ora di parodia dell’eloquio dalemiano, a me è passata ogni voglia di tornare a votare Pd in futuro. Non si sa mai che il mio voto finisca per sbaglio a sostenere la carriera di Raciti. Se questi sono i giovani, ridatemi Romano Prodi, Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi.

venerdì, aprile 01, 2011

Guardate questo grafico. Non è casuale

LA VOCE

ISTRUZIONE E STIPENDI DEI PARLAMENTARI

01.04.2011

Fonte: V. Galasso, M. Landi, A. Mattozzi, A. Merlo, in "Classe dirigente" (Egea, 2010)


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