venerdì, marzo 25, 2011

Corsi e ricorsi della storia del nostro paese

LA STAMPA


25/3/2011 - MALAPOLITICA IERI E OGGI
L'Italia dei nuovi notabili
Massimo Gramellini
La maggioranza degli storici e dei commentatori ha celebrato i nostri 150 anni dibattendo unicamente intorno alle origini dello Stato: come se alla commemorazione del nonno i nipoti sfogliassero l’album fotografico del suo battesimo, disinteressandosi del seguito. Purtroppo figure gigantesche come Cavour e Garibaldi non hanno molto a che spartire con l’Italia del 2011. Mentre basta spostarsi all’epoca successiva, l’ultimo scorcio del Ottocento, per respirare subito un’aria più familiare. Valori smarriti, partiti ridotti a comitati d’affari, compravendita di parlamentari, corruzione, scandali, cricche, mazzette. L’Italia dei notabili, la battezzò Indro Montanelli.

Cessata la spinta ideale, la politica diventa una palude nella quale sguazzano coccodrilli di modesto spessore, ma dotati di un appetito mostruoso. I due partiti «forti» nati dal Risorgimento, la destra cavouriana e la sinistra garibaldina (e qui il parallelismo con la Dc e il Pci forgiati dalla Resistenza è abbastanza impressionante) lasciano il posto a un vuoto morale e a una casta di capibastone legati al territorio, ciascuno titolare di un proprio pacchetto di clienti e di voti. Sono questi uomini, mossi esclusivamente da interessi di piccolo cabotaggio contrabbandati per «spirito di servizio», a fare e disfare maggioranze e governi, inaugurando la pratica del trasformismo e utilizzando «la macchina del fango» per sbarazzarsi degli avversari.

Crispi viene estromesso dal collega Nicotera, che passa sotto banco a un giornale le prove della sua bigamia. Qualche anno dopo è Crispi che costringe alle dimissioni Giolitti con una serie di rivelazioni compromettenti sullo scandalo della Banca Romana. Scandalo da cui finirà triturato anche lui, quando salterà fuori che una delle sue numerose mogli ha uno scoperto milionario col medesimo istituto. E che dire del ministro degli Esteri Mancini, smanioso di invadere il Nord Africa per cercarvi «le chiavi del Mediterraneo», espressione vuota e perciò destinata a imperitura fortuna? Viene azzoppato da un gossip ottocentesco sulle sue avventure amorose, culminate nella strepitosa risposta del ministro alla moglie che lo ha sorpreso a letto con la cameriera: «Scusami, cara, al buio avevo creduto fossi tu». La cronaca rosa lascia presto il posto a quella nera e nel 1893 il marchese Notarbartolo è ucciso su un treno a coltellate per aver denunciato i maneggi di Palizzolo, deputato e compare dei «padrini», con il Banco di Sicilia: l’alba dello struscio fra «maffia» e politica.

Corsi e ricorsi, siamo tornati lì. Agli intrecci inconfessabili, ai voti comprati, alle carriere costruite sui ricatti e le raccomandazioni, alle cricche degli appalti pubblici e delle massonerie deviate, alle case regalate ai potenti a loro insaputa per ingraziarsene i favori. Una delle poche differenze fra l’Italia dei notabili e quella dei responsabili è che a quei tempi non esisteva la tv, per cui non si era costretti a vedere di continuo certe brutte facce, tastandone quotidianamente l’ignoranza, la volgarità e la precarietà della sintassi.

Come si esce da questo pantano? Allora il cambio di stagione coincise con l’irruzione nella vita pubblica delle masse popolari, cattolica e socialista, che peraltro produsse contraccolpi drammatici, sfociati nell’interventismo bellico e poi nel fascismo. Stavolta è lecito auspicarsi un passaggio più «soft». Ma sempre dal risveglio dei sudditi - cioè dalla loro trasformazione in cittadini - occorre partire. E se all’epoca dei notabili il riscatto degli italiani si realizzò con la conquista del diritto di voto, oggi passa inesorabilmente dalla sua riconquista. Infatti quel diritto inalienabile lo abbiamo svenduto da tempo, delegando a una casta senza ideali la gestione degli affari che ci riguardano e venendone giustamente ricompensati con una legge elettorale che ha tolto alle vittime persino la possibilità di scegliersi i propri carnefici.

domenica, marzo 13, 2011

Quando i partiti cercavano di capire e di costruire strategie

Enrico Berlinguer - Intervista sul futuro (l'Unità 18 dicembre 1983)

Il 18 dicembre 1983 Ferdinando Adornato raccolse per "l'Unità", quest'intervista, che prendeva spunto dalle tematiche futurologiche del libro di Orwell 1984, ma affrontava temi come la democrazia informatica e telematica, la questione ambientale ed energetica, il ruolo della politica, del movimento operaio, del socialismo nel mondo nuovo che le rivoluzioni tecnologiche prospettavano. Berlinguer, dopo lo "strappo" che segnalava l'irriformabilità e la crisi imminente del "socialismo reale", proponeva al suo partito, alla società e alla cultura questi pensieri confermandosi come il più moderno e lungimirante tra i leader politici della sua epoca.

Tu come vedi il futuro di questa terza rivoluzione industriale: come un futuro di libertà o come un futuro di autoritarismo?

Credo che l'atteggiamento più corretto di fronte alle nuove rivoluzioni tecnologiche sia quello di considerarle in partenza come neutrali. L'esito di queste rivoluzioni, infatti, così come è sempre accaduto nel passato, non dipende dallo strumento in sè, ma dal modo col quale gli uomini decidono di utilizzarlo. Per essere più chiaro io vedo oggi la possibilità di due processi contemporanei: da una parte l'uso della microelettronica per rafforzare il potere dei gruppi economici dominanti, il potere di quello che in una parola viene chiamato il complesso militare industriale. Dall'altra però vedo una grande diffusione di nuove conoscenze che può portare ad un arricchimento di tutta la civiltà.

In sostanza tu dici: si apre una lotta sul controllo di questa rivoluzione, Carlo Bernardini segnala però che sia Urss che Usa fanno affidamento sulla passività dei sudditi. Ora questa passività è un ostacolo nella lotta per il controllo delle nuove tecnologie...

Non limiterei l'osservazione di Bernardini soltanto alle due massime potenze. I governi di quasi tutti i paesi del mondo contano sulla passività dei loro sudditi, anche se in modi diversi e con diversi gradi di oppressione. Solo in periodi limitati, generalmente nei periodi rivoluzionari o post-rivoluzionari, o comunque in periodi nei quali si è sentita la necessità e si è saputo e voluto aprire fasi nuove nella vita dei popoli, si sono avuti governi che contavano sull'iniziativa delle masse.

Ma se tu guardi al mondo di questo 1984 che sta per aprirsi, dove metti l'accento: sulla passività o su nuovi scenari di iniziative e a creatività?

Dipende. Può cambiare il giudizio a seconda delle questioni e dei paesi di cui si discute. Però io considero il movimento per la pace come un fatto di grandissima importanza di tutte le nostre epoche e destinato ad altrettanti grandi sviluppi. E non solo perché‚ è un movimento diretto a contrastare e a sventare il pericolo supremo della guerra atomica. Ma anche perché‚ è un movimento che, nelle sue diverse espressioni internazionali, parte da una presa di coscienza che coinvolge tutti i dati della vita di questa nostra civiltà. Esso esprime la volontà di milioni di uomini di non lasciare che le questioni fondamentali della loro vita, il loro futuro siano decisi da altri: dai governi, dagli apparati, dai complessi militari-industriali. No, io non vedo solo il pericolo della passività. Piuttosto segnalerei il pericolo di nuove espressioni di fanatismo ideologico o religioso che possono, in qualche paese, prendere il sopravvento.

Ma il nazionalismo è una tradizione francese per eccellenza. Non hai sempre detto tu stesso che un governo delle sinistre non può opporsi alle tradizioni del proprio paese?

Non può e non deve opporsi alle tradizioni buone, ma deve opporsi a quelle regressive. Oggi non sono entrati in discussione soltanto gli assetti produttivi e le strutture del capitalismo maturo, ma siamo di fronte ad una vera e propria crisi del mondo. Viviamo in un'epoca per molti aspetti suprema della storia dell'uomo sia per le possibilità che per i rischi. L'allarme non riguarda solo il rapporto tra lo Stato e l'elettronica ma riguarda anche i fiumi, i laghi, i mari, l'aria che respiriamo, l'atmosfera e la toposfera della Terra. Grava infine sull'umanità l'incubo di una crescente insufficienza delle risorse alimentari. Ecco perché‚ pensavo ad un convegno che mettesse insieme studi e analisi di ambiti diversi: le scienze fisiche, chimiche, biologiche, antropologiche, demografiche, informatiche, mediche. In sostanza, dunque, un convegno che guardasse al futuro con un po' di fantasia ma sempre sulla base delle acquisizioni e previsioni delle varie scienze. Ritengo che sia stato un errore non esserci ancora arrivati.

E perché‚ non ci si è arrivati?

Le cause sono tante ma io ne voglio sottolineare una. In questi ultimi anni ci siamo giustamente concentrati sul tema della lotta contro la guerra. E c'è ancora tanto da fare perché in Italia si estenda la consapevolezza, che nella Rft è più estesa che da noi, che la guerra è davvero possibile. D'altra parte, però, bisogna stare attenti che la paura della distruzione totale non diventi così ossessiva e stringente da impegnare tutte le energie e impedire di pensare ad altro. Questo sarebbe una vittoria degli strateghi del terrore. C'è infatti chi ha interesse a farci convivere col rischio perenne della guerra impedendoci di vedere non solo che la guerra si può sventare ma che si può, già oggi, vivere in modo diverso.

Insistiamo ancora sul tema dell'elettronica. Come deve prepararsi il partito ad affrontare questa nuova epoca?

Innanzitutto bisogna impadronirsi il più possibile della conoscenza di questi fenomeni. A tutti i livelli. Su questa base bisogna poi definire politiche adeguate a stimolare, a orientare, controllare e condizionare le innovazioni in modo che non siano sacrificate esigenze vitali dei lavoratori e dei cittadini. Ma bisogna anche saper vedere i problemi che si pongono per la composizione sociale del partito. Credo che dobbiamo ormai considerare come un dato ineluttabile la progressiva diminuzione del peso specifico della classe operaia tradizionale. Le congiunture economiche possono, di volta in volta, accelerare o decelerare questa tendenza. Con le lotte sindacali e politiche si deve poi intervenire in questi processi, per evitare che essi assumano un carattere selvaggio e si risolvano in un danno per i lavoratori. Ma la tendenza è quella. Alcuni traggono da ciò la conclusione che la classe operaia è morta e che con essa muore anche la spinta principale alla trasformazione. Secondo me non è così. A condizione che si sappiano individuare e conquistare alla lotta per la trasformazione socialista altri strati della popolazione che assumono, anch'essi, in forme nuove, la figura di lavoratori sfruttati come i lavoratori intellettuali, i tecnici, i ricercatori. Sono anch'essi, come la classe operaia, una forza di trasformazione. E poi ci sono le donne, i giovani....

Si può arrivare a dire che i lavoratori intellettuali sostituiranno la classe operaia tradizionale?

E' una domanda che si spinge molto avanti nel tempo. Forse avanti di alcuni decenni. Comunque già oggi i processi industriali spingono a far sostituire da questi strati notevoli settori di classe operaia. Mi pare però che sia assolutamente da respingere l'idea che questi nuovi processi costituiscano una confutazione del marxismo e del pensiero di Marx in particolare. Il carattere sociale della produzione (e anche della informazione come fattore di produzione) è sempre ancora in contrasto con il carattere ristretto della conduzione economica. Questo assunto di Marx non è smentito neanche dalla rivoluzione elettronica.

Ma in un mondo nel quale le informazioni, anche le più sofisticate, possono arrivare direttamente nelle case della gente, resisterà il partito di massa? Avrà ancora un senso un partito che costruisce un proprio sistema autonomo di informazione con gli iscritti? L'elettronica non spezzerà il circuito della partecipazione?

La questione esiste ed é anche più ampia di quella che tu poni. Non riguarda solo il Pci e i partiti di massa ma riguarda il destino e le possibilità stesse dell'associazione collettiva. Io francamente credo che questa esigenza sia una esigenza irrinunciabile dell'uomo e continuerà ad esistere anche se in forme diverse dal passato. La lotta, la pressione di massa saranno sempre necessarie. Certo si può immaginare un mondo nel quale la politica si riduca solo al voto e ai sondaggi; ma questo sarebbe inaccettabile perché‚ significherebbe stravolgere l'essenza della vita democratica.... Ma già si parla di democrazia elettronica: la gente risponde da casa ai quesiti posti sul video dell'amministrazione... La democrazia elettronica limitata ad alcuni aspetti della vita associata dell'uomo può anche essere presa in considerazione. Ma non si può accettare che sostituisca tutte le forme della vita democratica. Anzi credo che bisogna preoccuparsi di essere pronti ad affrontare questo pericolo anche sul terreno legislativo. Ci vogliono limiti precisi all'uso dei computer come alternativa alle assemblee elettive. Tra l'altro non credo che si potrà mai capire cosa pensa davvero la gente se l'unica forma di espressione democratica diventa quella di spingere un bottone. Ad ogni modo lo ripeto: io credo che nessuno mai riuscirà a reprimere la naturale tendenza dell'uomo a discutere, a riunirsi, ad associarsi. Ogni epoca, certo, ha e avrà i suoi movimenti e le sue associazioni. Vedi, per esempio, nella nostra i movimenti pacifisti, i movimenti ecologici, quelli che, in un modo o nell'altro, contrastano la omologazione dei gusti e il conformismo: chi avrebbe saputo immaginarli quaranta o anche venti anni fa? Naturalmente compito dei partiti dovrà essere quello di adeguarsi ai tempi e alle epoche. E' qui che si misura la loro tenuta: sulla loro capacità di rinnovarsi.

Quindi tu non credi che anche partiti storici come quelli della vecchia Europa possano diventare solo dei partiti-immagine...

Possono, certo che possono. Ma intanto bisogna attrezzarsi per saper essere anche partiti-immagine e partiti d'opinione. Il rischio è quello di diventare solo questo. Perché sarebbe un impoverimento non solo della vita politica, ma della vita dell'uomo in generale.

Tu come te la immagini una vita nella quale si passa ore ed ore a casa di fronte ad uno schermo gigante, nella quale si hanno a disposizione video-cassette che renderanno forse inutile la scuola così com'è? Come la immagini una vita incasellata di ragazze, studenti, impiegati che troveranno ogni forma di socialità già bell'e pronta dentro casa?

Intanto bisogna vedere quali sono i contenuti di queste trasmissioni ricevute a casa. Il contenuto può essere tale da spingere gli uomini in una situazione di maggiore solitudine, di maggior frustrazione, di maggiore ostilità nei confronti degli altri oppure può avvenire il contrario. Io dico che dipende molto da questo. Naturalmente se questi strumenti diventeranno espressione di una spinta che punta a rafforzare sentimenti egoistici questo sarà una cosa molto negativa.

Allora tu dici: attenzione al contenuto. Il mezzo in sé non ha poteri...

No, anche il mezzo conta. E' evidente che non andare per niente a scuola o andarci magari soltanto per un'ora cambierà la vita della gente. Ma questi aspetti sono oggi difficilmente immaginabili. Prendiamo l'esempio della scuola e del libro: naturalmente io adesso sosterrei che la lettura del libro è insostituibile e anzi deve diventare ancora più importante. E sosterrei la stessa cosa anche per la scuola, naturalmente una scuola molto rinnovata. Però, anche qui, io non mi sento di fare affermazioni assolute. E' difficile immaginare un computer che crei vera poesia o una opera d'arte e da questo punto di vista è difficile non tenere conto del grido d'allarme, che tu riferivi, di Vespignani. Tuttavia non si può escludere l'ipotesi che lo stesso mezzo televisivo possa produrre cose di altissima qualità che soddisfino anche le esigenze più raffinate e più creative.

Insomma la tecnologia non distruggerà l'individuo...

Nessuna epoca ha mai raggiunto la realizzazione dell'individuo, della maggioranza degli individui. Nel passato moltissimi individui erano distrutti non solo sul piano morale ma anche sul piano fisico. Pensa agli schiavi nell'antichità o ai negri razziati e trasportati in America. Quante erano le persone che riuscivano a diventare individui nel passato? Molte meno di oggi. Ma anche nel sistema capitalistico la morte precoce per lavoro dei fanciulli nella prima rivoluzione industriale non era una distruzione? E oggi, i bambini, gli uomini, le donne, che muoiono di fame o che restano analfabeti nel Terzo mondo non sono distrutti? Anzi in questi casi non si può neanche parlare di distruzione ma di vero e proprio impedimento della crescita e della vita dell'individuo.

All'inizio dicevi che lo scenario catastrofico del futuro non lo vedi per l'elettronica ma per la guerra. Ti faccio una domanda che avrai già ricevuto centinaia di volte. Credi davvero alla possibilità della guerra nucleare globale?

Sì, penso sia davvero possibile. Non c'è nessuna legge storica che ci possa far dire: è impossibile. Per quanto la mente si ritragga, assolutamente inorridita, di fronte alla eventualità della fine della civiltà umana, questo non è un motivo sufficiente ad arrestare la possibilità della guerra. E direi che, negli ultimi tempi, il pericolo è diventato più reale. Infatti, mentre per una certa fase il cosiddetto “equilibrio del terrore” ha funzionato come deterrente, oggi comincia a non essere più così. Il rischio si è aggravato soprattutto per la crescente incontrollabilità dei processi economici e politici mondiali. Nello stesso tempo c'è stato un nuovo salto di qualità nella sofisticazione tecnologica delle armi. Sono stati spesi fiumi d'inchiostro, da studiosi e strateghi, per descrivere queste novità: quando ci sono strumenti coi quali si può colpire l'avversario in pochi minuti questo può far nascere la tentazione di sferrare il primo attacco. Oppure può far sorgere la paura di riceverlo e quindi, per reazione, la tentazione di sferrarlo per primi. E poi c'è l'ormai verificata possibilità dell'errore che tanti scienziati hanno più volte dimostrato come reale. Errori ad esempio nei sistemi d'avvistamento: ho letto che negli Stati Uniti sono avvenuti diversi di questi errori tutti poi corretti dopo alcuni minuti. Ed è immaginabile che altrettanto sia avvenuto in Urss. Ma questi tempi, con i nuovi missili e con altre armi, possono essere ancora ridotti e può arrivare il giorno in cui l'errore non potrà più essere corretto in tempo. E i missili, una volta lanciati, non possono essere fermati. Ma c'è di più: sento che oggi si comincia a parlare di guerra nucleare limitata o di guerra nucleare vittoriosa. E' già un segnale gravissimo che si parli in questi termini, che si pensi di poter uscire vittoriosi da uno scontro nucleare. E anche che qualcuno pensi di poterne uscire incolume. Questa è una concezione molto pericolosa. Ricordo un film degli anni Sessanta: L'ultima spiaggia di Stanley Kramer. Si svolgeva in Australia. Un'Australia che era l'unica terra risparmiata dal conflitto nucleare. Poi alla fine erano tutti costretti ad ingoiare una pillola per uccidersi pur di evitare le atroci sofferenze provocate dalle radiazioni nucleari che, lentamente, si avvicinavano anche su quella ultima spiaggia, su quella ultima terra del mondo. Già negli anni Sessanta si sapeva che un conflitto nucleare non lascia tregua a nessuno. Figuriamoci se non dobbiamo aver noi, oggi, ben viva questa coscienza. Ecco che l'utopia torna ad avere poco spazio, pressata dall'angoscia della catastrofe... No, oggi noi ci battiamo per obiettivi che possiamo anche chiamare limitati, cioè bloccare la nuova spirale in atto degli armamenti. Ma diciamo che bisogna raggiungere tappe più avanzate: il congelamento, la progressiva riduzione fino al bando completo delle armi nucleari, di quelle biologiche, di quelle chimiche. Il disarmo totale può essere considerato una utopia? Io dico di no. Tecnicamente oggi è possibile controllare il disarmo, mentre nel passato non era così. Io dico che esso diventerà una necessità, non solo per sopravvivere, ma anche per risolvere i problemi dell'umanità a cominciare da quelli dello sviluppo. Certo oggi il mondo sembra andare in un'altra direzione, ma io credo che questa che è stata una tipica utopia del movimento socialista ritorna oggi di grande attualità.

Uno slogan che fa parte della cultura socialista e comunista parla del sol dell'avvenir. Da raggiungere, da conquistare, nel quale credere. In una civiltà in cui angoscia e segni di morte sembrano prevalere ha ancora senso questo slogan?

Intanto c'è un paradosso: sul sole dell'avvenire oggi discutono più gli scienziati che i comunisti: infatti uno degli orizzonti più ricchi che si può aprire per l'uomo nasce proprio dalle possibilità di una piena utilizzazione dell'energia solare. Ecco un modo scientifico di rifarsi ancora all'idea del sol dell'avvenir! Ma tolto tutto quello che di utopistico, di millenaristico che pure nel passato questo slogan esprimeva, io credo che esso non vada affossato. Quali furono infatti gli obiettivi per cui è sorto il movimento per il socialismo? L'obiettivo del superamento di ogni forma di sfruttamento e di oppressione dell'uomo sull'uomo, di una classe sulle altre, di una razza sull'altra, del sesso maschile su quello femminile, di una nazione su altre nazioni. E poi: la pace fra i popoli, il progressivo avvicinamento tra governanti e governati, la fine di ogni discriminazione nell'accesso al sapere e alla cultura. Ebbene, se guardiamo alla realtà del mondo d'oggi chi potrebbe dire che questi obiettivi non sono più validi? Tante incrostazioni ideologiche (anche proprie del marxismo) noi le abbiamo superate. Ma i motivi, le ragioni profonde della nostra esistenza quelle no, quelle ci sono sempre e ci inducono ad una sempre più incisiva azione in Italia e nel mondo.

DI FRONTE ALLA CATASTROFE DEL GIAPPONE

di CLAUDIO MAGRIS


In queste ore si ha talvolta l'impressione di assistere alla fine del mondo in diretta; le voragini, l'acqua e il fuoco in furore che in Giappone stanno distruggendo tante vite umane e i loro luoghi ci arrivano in casa. D'improvviso, dinanzi alla natura - da noi così dominata, sfruttata, intaccata - ci si sente come i lillipuziani davanti a Gulliver; ondate sbriciolano grandi edifici come giocattoli, automobili e treni interi spariscono come fuscelli, il cielo s'incendia. Ma cos'è questa cosiddetta natura, cui spesso gli uomini si contrappongono - ora con l'arroganza del dominatore, ora con l'angosciata umiltà del colpevole guastatore - come se non facessero anch'essi parte della natura, come se non fossero anch'essi natura, al pari degli animali, delle piante o delle onde? Le catastrofi naturali inducono spesso a pensose e forse inconsciamente compiaciute geremiadi sulla punita superbia dell'uomo che pretende di dominare la natura, sulla tecnica che devasta la vita. Ogni disastro è buono per criticare ogni fiducia nella tecnica e nel progresso. L'apocalisse - immaginata, nella tradizione, ora per fuoco ora per acqua adesso confusi nella distruzione provocata dal terremoto - incute, a chi la guarda come noi in diretta ma da lontano e al sicuro o almeno pensando di essere al sicuro, un brivido di spavento. Come accade spesso con lo spavento, a questo si mescolano un'ambigua attrazione e un compunto monito sulla debolezza dell'uomo e la sua mancanza di umiltà nei confronti della natura.
Tutto ciò si intensifica dinanzi a sciagure più direttamente dovute a responsabilità umane, a differenza dal carattere più decisamente «naturale» del terremoto e dello tsunami che infuriano in Giappone e che non sembra possano esser messi in conto all'insensatezza o alla disonestà umana, come invece ad esempio nel caso degli effetti scatenati dalle deforestazioni o dall'infame edilizia che, in molti casi - non sembra questo essere il caso del Giappone ora colpito - non si preoccupa, per incompetenza o avidità truffaldina, delle misure antisismiche.

“L’ECLISSE DEI PROFESSORI-MAESTRI UMILIATI DA UNA SCUOLA CHE NON LI AMA”

di Tullio Gregory

Nel dibattito che periodicamente e stancamente si apre sulla scuola, sempre in occasione di eventi che la coinvolgono solo in modo occasionale (come le stupefacenti esternazioni del presidente del Consiglio sulla scuola pubblica), vi è un grande assente: la figura del maestro, del professore (non amo il temine docente, generico e di matrice politico-sindacale). Relegato da tempo ai margini dei discorsi sulla scuola e delle sempre meno felici «riforme» , umiliato dal trattamento economico tra i più bassi in Europa e in Italia, anche comparativamente ad altre categorie del pubblico impiego (basti un confronto con le retribuzioni di gran lunga superiori dei commessi del Parlamento o degli impiegati delle varie Autorità), è diventato un «prestatore di servizi» di fronte alla «utenza» (alunni e famiglie) che, organizzata in «consigli di classe» , rivendica il «diritto al successo scolastico» e ad attività alternative (pomposamente chiamate «offerta formativa» ) e vede quasi sempre nel professore il colpevole dell’insuccesso di alunni svogliati. Parliamo di scuola pubblica, perché la privata risponde ad altre logiche ed è per sua natura protettiva. L’eclisse dei maestri, dei professori coincide con il tramonto dell’idea di scuola come luogo di formazione, quindi di studio severo e di salutare selezione. Luogo di apprendimento di saperi, dove l’insegnante comunica ai giovani una cultura che è fatta di testi, di letture, di date e dati, di esercizi di memoria, presupposti di ogni capacità argomentativa e scrittoria. Quindi luogo di lavoro, di interrogazioni, di esami, e insieme di promozione sociale e di educazione civile. Invece si è scambiata la scuola democratica con la scuola facile, la scuola aperta a tutti con quella che promuove tutti. Della progressiva erosione della scuola pubblica — non solo nell’opinione comune ma persino nelle sue strutture didattiche ed edilizie — gli insegnanti sono stati le prime vittime: parliamo qui delle elementari, delle secondarie di primo e secondo grado, non dell’università— sulla quale si dovrà fare altro ragionamento — soprattutto perché è nel corso scolastico sino alla maturità che avviene la vera formazione del giovane, quando l’insegnante esercita un’influenza di grande incisività e diviene spesso maestro di vita. Giunto all’università, lo studente può essere avviato alla ricerca scientifica o all’esercizio di professioni, ma la sua formazione di base è ormai compiuta. — tanto i mezzi di comunicazione, quanto le famiglie, hanno fortemente contribuito all’indebolimento della figura dell’insegnante: la stampa, la radio, la televisione sono più attente a manifestazioni di piazza, magari agli esiti degli esami di maturità che all’efficienza delle strutture didattiche, alla validità dei programmi di insegnamento. Le famiglie, con i loro rappresentanti, sono prevalentemente impegnate a «difendere» i propri figli, considerando la scuola una zona di parcheggio che non deve creare problemi: quindi non importa che l’insegnante sia preparato, l’importante è che non sia severo, non dia troppi compiti a casa, soprattutto non per il lunedì perché il fine settimana deve essere dedicato non allo studio, ma ad affannate corse in campagna o al mare; non deve dare compiti per le vacanze perché i ragazzi si debbono riposare. Soprattutto l’insegnante non deve dare valutazioni negative, perché il ragazzo è sempre bravo e studioso, magari psicologicamente fragile (come son pronti a certificare). Peraltro, ove fosse bocciato, si è ormai aperta e praticata la via del ricorso al Tar che spesso interviene con sospensive che fanno oscillare per mesi il ragazzo da una classe superiore ad una inferiore. La pedagogia «progressista» — tanto cattolica quanto laica — ha distrutto il rapporto tra insegnante e studente fondato sulla competenza del primo e il bisogno di formazione del secondo; ha considerato ogni forma di valutazione una prevaricazione, ha difeso il diritto dell’alunno all’ignoranza: questo il risultato della lotta al nozionismo, come se il sapere non fosse fatto di nozioni che costituiscono la cultura, e della critica radicale di ogni insegnamento normativo non solo per la scrittura in lingua italiana ma anche per il corretto comportamento rispetto alla scuola e all’insegnante. Si aggiungano i tagli del bilancio ministeriale che hanno contribuito potentemente all’indebolimento della scuola pubblica, con una drastica riduzione degli organici (87.400 posti in meno dal 2009; 19.700 nel solo anno 2011-2012): si costituiscono classi sovraffollate, gli insegnanti sono obbligati a correre da una scuola all’altra mentre diminuiscono drasticamente le ore di insegnamento; si aboliscono insegnanti di sostegno, si ignorano i nuovi problemi posti dalla forte presenza di immigrati. Diminuiscono anche i dirigenti scolastici dai quali spesso dipende la tenuta e il livello della scuola: molti ormai i facenti funzioni impegnati in più Istituti, vittime di inutili incombenze burocratiche e di estenuanti riunioni assembleari. Frattanto da anni non si bandiscono concorsi che costituiscono l’unico vero filtro selettivo per accedere all’insegnamento e si fa aumentare a dismisura il numero dei precari. L’insegnante è abbandonato a se stesso; dimenticata la sua fondamentale importanza nella formazione dei giovani, emarginato da ogni serio dibattito sulla scuola, non meraviglia se aumentano le richieste di pensionamento anticipato: la fuga non è solo dei cervelli fuori dall’Italia, ma dalle nostre scuole per ritrovare forse qualche serenità in una normale vita di studio e di affetti.

domenica, marzo 06, 2011

World mobile data traffic to explode by factor of 26 by 2015


Anyone who thinks that the Internet revolution is in anything but its early phase had better take a look at Cisco's latest Global Mobile Data Traffic Forecast(PDF). There are so many startling predictions and observations in the report that we'll just begin with these headlines:

  • There will be 788 million mobile-only Internet users by 2015.
  • Global mobile data traffic will increase by a factor of 26 by 2015.
  • World mobile data grew by a factor of 2.6 in 2010 from 2009.
  • Average smartphone usage doubled: 79 MB per month, up from 35 MB per month in 2009.
  • Android operating system data use is rapidly catching up to the iPhone.
  • In 2010 almost a third of smartphone traffic was offloaded onto fixed networks via dual-mode or Femtocells.
  • Millions of people around the world have cell phones but no electricity, and by 2015 a majority in the Middle East and Southeast Asia will live "off-grid, on-net."

"It is a testament to the momentum of the mobile industry that this growth persisted despite the continued economic downturn, the introduction of tiered mobile data packages, and an increase in the amount of mobile traffic offloaded to the fixed network," Cisco notes.

Three times three (almost)

For the third year in a row, global mobile data use has nearly tripled, Cisco says. And the growth isn't only happening in the places where mobile adoption is in its early phases. It's happening where the smartphone revolution has been going full bore for years.

In Italy, Telecom Italia delivered 15 times more mobile data traffic in 2010 than in 2007. AT&T says that its traffic jumped by a factor of 30 from third quarter of 2009 through the third quarter of 2010. China Unicom's 3G system saw a 62 percent traffic boost in a single quarter: Q1 to Q2 of 2010. Europe's TeliaSonera says it expects mobile data traffic to double each year for the next five years.

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