domenica, dicembre 12, 2010


Giovanilismo e rottamazione

RENZI, VENDOLA E LA GENERAZIONE CONTRO


Giovanni Sartori
11 dicembre 2010

Se Berlusconi non ride (perlomeno sino al 15 dicembre) la sinistra di Bersani e dintorni può solo piangere. Quando il Pd era il Pc—da Togliatti a Berlinguer — il cursus honorum, la carriera, era rigidamente disciplinata: prima una esperienza nelle amministrazioni locali, poi, per i più bravi, il parlamento nazionale. Il tutto era deciso dalla segreteria del partito e, in ultima istanza, dal suo segretario. Allora nessuno osava dire, e nemmeno pensare, che i Pajetta e i Terracini di quel tempo fossero da «rottamare», da pensionare perché vecchi. E se Togliatti non fosse deceduto anzitempo, nessuno lo avrebbe contestato nemmeno a 90 anni. Eppure quel Pc, nel complesso «anzianotto», arrivò a conseguire un terzo del voto degli italiani e quasi a sorpassare la Dc.

Rispetto alla sua epoca d’oro la nostra sinistra post-comunista di oggi esibisce leader relativamente giovani, da D’Alema a Fassino a Veltroni e Bersani. Nessun vegliardo. Eppure il sindaco di Firenze Matteo Renzi (35 anni) e il governatore della Puglia Vendola (52 anni) li definiscono «roba vecchia», materiale da pensione. La loro parola d’ordine è avanti i giovani, e cioè sé stessi. Nella storia, da sempre e dappertutto, il giovanilismo è raro. Le irrequietezze giovanili cominciano con lo Sturm und Drang (tempesta e assalto) dei primi romantici e, in Italia, con il futurismo e il fascismo. Ma furono fuochi fatui. Le rivoluzioni sono spesso promosse dai giovani; giovani che però si attaccano al potere sino alla morte. Quando l’Urss si dissolse esibiva la più straordinaria gerontocrazia (governo dei vecchi) al mondo.

Dicevo che il giovanilismo non dura. È così per forza, perché i giovani diventano vecchi. Ma è anche bene che sia così. I giovani apportano un elemento — l’energia — che gli anziani non hanno più, mentre gli anziani apportano l’elemento che i giovani ancora non hanno, e cioè esperienza e conoscenze. Insomma, gioventù è energia senza sapere, anzianità è sapere senza energia. Le civiltà decadono per senescenza e quando diventano gerontocrazia. Però, nessuna civiltà è mai emersa da una paidocrazia, dal potere dei giovani.

venerdì, novembre 26, 2010

Sono interessanti i dati riportati

CHICAGO BLOG

Università: come non si debbono fare le riforme

Ugo Arrigo

La riforma degli atenei statali in corso di approvazione alla Camera rappresenta un ottimo esempio di comenon si debbono fare le riforme. In primo luogo non dimostra di poter realizzare un miglioramento rispetto ad uno status quo ritenuto insoddisfacente (mentre un buon progetto di riforma deve provare di poter realizzare un nuovo stato che sia superiore e dominante, possibilmente in maniera netta, rispetto a quello corrente). Per dimostrare di poter superare gli aspetti problematici della situazione esistente deve essere in grado di identificarli e quantificarli con esattezza: prima di individuare la terapia occorre una diagnosi accurata. La riforma, invece, è una terapia senza diagnosi (secondo difetto).

Cosa si imputa infatti all’università pubblica? Una scarsità di risultati solo in assoluto o anche in rapporto alle risorse consumate? Si tratta di due ipotesi molto differenti dato che nel primo caso la colpa è delle risorse insufficienti e nel secondo dell’inefficienza del sistema che, invece, spreca risorse. Nel primo caso occorre dare più risorse per ottenere risultati migliori, nel secondo caso le risorse si possono anche ridurre all’accrescersi dell’efficienza del loro utilizzo.

Nel nostro paese vi sono 12 adulti laureati ogni 100 abitanti, nei paesi sviluppati dell’area Ocse 26 ogni 100 abitanti; in Italia coloro che hanno conseguito un dottorato di ricerca sono 16 ogni 100 mila abitanti, in Europa50, negli Stati Uniti 48. Il minor output totale nel tempo del sistema universitario è dunque provato, tuttavia il rapporto output/input segnala per l’Italia un valore superiore alla media europea: da noi vi sono circa 30studenti iscritti per docente di ruolo, ricercatori compresi (60 mila docenti per 1,8 milioni di studenti), nell’area Ocse 15,8 studenti per docente, poco più della metà. Se escludiamo dal numeratore i fuori corso, che esistono solo in Italia e che tuttavia non sono iscritti ‘in sonno’ ma consumano risorse, il rapporto docenti studenti scende in Italia a 21,4, rimanendo comunque più elevato del 35% rispetto alla media Ocse. Inoltre, se escludiamo dal denominatore i ricercatori, i quali non sono tenuti dalle norme vigenti a svolgere attività didattiche (sino al decennio ’90 non potevano essere titolari di insegnamenti ma solo di attività didattiche integrative), e vi lasciamo i soli professori ordinari e associati, il rapporto studenti docenti sale a 35 se escludiamo i fuori corso dal numeratore e a 48 se li includiamo. Per quanto riguarda la spesa pubblica per la formazione superiore essa è pari in Italia allo 0,8% del Pil, nei paesi Ocse all’1,3% del Pil. Essa è inoltre pari in Italia al’1,6% della spesa pubblica totale contro il 2,9% nell’Unione Europea.

Sul fronte della ricerca in Italia vi sono 82 mila addetti (universitari e appartenenti ad altri enti), in Francia e Gran Bretagna oltre 160 mila, in Germania oltre 250 mila, in Giappone oltre 600 mila, negli Stati Uniti più di1,2 milioni. La spesa complessiva per la ricerca è pari in Italia all’1,1% del Pil ed essa è per oltre metà a carico del settore pubblico; in Europa è pari all’1,9% del Pil. L’Italia e gli altri paesi europei si erano impegnati a raggiungere il 3% del Pil entro il 2010. Pur essendovi indubbi margini di miglioramento di efficienza (rimando al mio ‘progetto liberale’ di riforma degli atenei) è evidente che la scarsità di risultati complessivi del sistema di formazione universitaria e della ricerca sia soprattutto conseguenza della scarsità di risorse messe a disposizione.

I dati precedenti sono noti (debbono ragionevolmente esserlo) ai ministri che hanno promosso la riforma dell’università, essendo riportati a pag. 37-38, in una scheda curata dal Ministero dell’Università, Istruzione e Ricerca, dell’Allegato al Documento di Programmazione Economico-Finanziaria per gli anni 2010-2013 presentato dal Ministro dell’Economia e dal Presidente del Consiglio il 15 luglio 2009.

Come si può deliberare senza conoscere? Come si può deliberare ignorando ciò che è noto? … come se le soluzioni non maturate e non ragionate non partorissero necessariamente nuovi grovigli e rinnovate urgenze di porre rimedio a peggiori mali.

lunedì, novembre 22, 2010

Repubblica.it: il quotidiano online con tutte le notizie in tempo reale.


Ancora positivo il dato del terzo trimestre, ma è un +0,6% rispetto al +0,9 del trimestre precedente. L'Italia quasi ferma a +0,2 e con il minor tasso su base annua, appena l'1% contro una media del 3,1% dei paesi Ocse e del 2,1 di quelli europei.

PARIGI - Rallenta nel terzo trimestre la crescita dell'area Ocse. Il dato diffuso dall'organizzazione è positivo per il sesto trimestre consecutivo, ma scende dallo 0,9% del secondo trimestre a uno 0,6%.

La frenata è particolarmente brusca per l'Unione europea e l'area euro, che passano da un +1% ad un magro 0,4. La Germania resta sopra la media, ma con uno 0,7%, assai lontano dalla crescita record del 2,3 del trimestre precedente. Rallentano Francia (0,4%), Italia (0,2) e Gran Bretagna (0,8). Meglio del trimestre precedente, invece, il Giappone (+0,9) e marginalmente gli Stati Uniti (0,5).

Resta costante comunque il tasso di crescita su base annua, al 3,1% come nel trimestre precedente. Rispetto a questo parametro in testa risulta il Giappone, con il 4,1%, mentre è proprio l'Italia a fare da fanalino di coda con appena l'1%, meno della metà della media dell'Unione europea (2,1) trainata dalla locomotiva tedesca che è al 3,9%.

(22 novembre 2010)

Investire in innovazione serve?

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non servono parole!

domenica, novembre 21, 2010

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 14 ottobre 2010

Italia sulla via della decadenza. C’è il dovere di dire come stanno le cose


ROMA (14 novembre) – Per decidere cosa fare bisogna prima di tutto sapere “come stanno le cose”. Quest’affermazione è scontata, ma sono costretto a ripeterla perché oggi non mi sembra applicata né nelle scelte mondiali né in quelle nazionali. A livello mondiale ilG.20 di Seoul si è tutto svolto nell’illusione che la crisi sia ormai sotto controllo e che siano sufficienti misure minori per riprendere senza radicali riforme il tradizionale cammino. Lo stesso errore di base impedisce l’analisi e quindi la cura dei nostri problemi nazionali.

Ci fa infatti comodo , ed è oggettivamente consolatorio, sostenere che ci stiamo comportando in modo simile a tutti e che soffriamo della stessa malattia degli altri grandi paesi della vecchia Europa.

Le cose purtroppo non stanno così. Le cose stanno diversamente sia quando analizziamo l’andamento di lungo periodo della nostra economia sia quando ne osserviamo i comportamenti a breve. Riflettendo sul lungo periodo, è passata ad esempio sotto silenzio un importante tabella (scarica la tabella cliccando Qui e poi Qui. N.d.r.)elaborata da El Pais su dati del Fondo Monetario Internazionale. Una tabella che mette in fila le percentuali di crescita dei 180 paesi più importanti del mondo (e cioè in pratica di tutti i paesi) negli ultimi dieci anni. Io stesso sono stato sorpreso nel leggere che l’Italia è addirittura penultima, precedendo solo Haiti. Nell’intero primo decennio del secolo la nostra intera economia è cresciuta solo del 2,43% cioè quasi nulla. Sfiguriamo anche a confronto degli altri grandi paesi della pigra Europa perché la Gran Bretagna ha progredito del 15% , la Francia del 12% e la Germania del 9%. Si tratta di progressi modesti anche da parte dei nostri confratelli europei se li paragoniamo al 170% della Cina, al 103% dell’India o al 45% della Turchia, ma nettamente superiori a quelli italiani.

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Se poi vogliamo guardare “come stanno le cose” oggi, dobbiamo constatare che siamo caduti più degli altri durante la crisi del 2009 e stiamo ora crescendo decisamente meno della Germania, di Francia e della Gran Bretagna. Continuando in questo modo ci occorreranno altri cinque anni per ritornare al livello di reddito che l’Italia aveva nel periodo precedente la crisi. Ed è chiaro che, se gli altri paesi continueranno a camminare più in fretta di noi, il nostro distacco non può che aumentare.

Ecco “come stanno le cose”. Ben poco potremo consolarci per il fatto che siamo ancora un paese relativamente ricco. Negli ultimi dieci anni siamo infatti passati dal 24esimo al 28esimo posto della scala mondiale del reddito pro-capite e tutti sappiamo bene che, continuando in questa lenta discesa, non solo dovremo abbassare il nostro tenore di vita ma ancora di più lo dovranno abbassare i nostri figli. Vivere in un periodo di decadenza, o almeno di aspettative decrescenti, è quanto di peggio possa capitare a una comunità nazionale. E noi lo dobbiamo evitare a ogni costo, discutendo con serenità e con atteggiamento costruttivo sui semplici dati che ho appena esposto e cercando soluzioni che, nella situazione in cui siamo, debbono essere condivise, o almeno comprese, da tutte le componenti della società italiana.

Credo, ad es. che Marchionne abbia sollevato un problema vero sul futuro del nostro paese. Credo che abbia fatto qualche errore tattico ma credo anche che le sue analisi sul settore dell’automobile debbano essere allargate ad altri settori della nostra società, per obbligarci a un sereno dibattito sul futuro dell’intera nostra economia e, forse, dell’intera nostra organizzazione civile. Il Paese si è invece spaccato e si è schierato secondo vecchi schemi, impedendo in questo modo quel dibattito così necessario per il nostro futuro. Un dibattito che deve mettere sotto esame tutti i comportamenti incompatibili con i cambiamenti che avvengono nelle altre parti del mondo.

E’ infatti l’intera nostra società che rifiuta i comportamenti che, ci piacciano o no, caratterizzano ormai tutte le società avanzate del pianeta. Non si può infatti correre alla velocità degli altri quando l’evasione fiscale copre almeno un quarto della nostra economia e non da segni di calare. E nemmeno quando la scuola e la ricerca hanno un ruolo sempre più marginale nella società e nelle strutture produttive: E potremo continuare con la lista delle ragioni che spingono ogni anni decine di migliaia dei nostri migliori giovani ad emigrare per trovare le occasioni di lavoro che non sono reperibili in Italia. L’elenco potrebbe davvero continuare ma quest’elenco non serve a nulla se non ci si accorge che il cammino della decadenza è già cominciato e che questa caduta sarà sempre più accelerata se ci dedicheremo ancora a elencare primati che non abbiamo più o a sperare che i pochi primati che ancora possediamo si estendano per magia a tutta la nostra economia o a tutta la nostra società. Un processo di rinascita collettiva nasce sempre da un’analisi impietosa della realtà. Per fare cose nuove ci si deve prima rendere conto di “come stanno le cose.”


GRAMSCI: TEMA DI QUINTA ELEMENTARE DI ANTONIO GRAMSCI.

pubblicata da Biblioteca Gramsciana il giorno domenica 14 novembre 2010 alle ore 11.18



Il tema era questo:"Se un tuo compagno benestante e molto intelligente ti avesse espresso il proposito di abbandonare gli studi, che cosa gli rispon deresti?"

Ghilarza, addì 15 luglio 1903 Carissimo amico,

Poco fa ricevetti la tua carissima lettera, e molto mi rallegra il sapere che tu stai bene di salute. Un punto solo mi fa stupire di te; dici che non ripren derai più gli studi, perché ti sono venuti a noia. Come, tu che sei tanto intelli gente, che, grazie a Dio, non ti manca il necessario, tu vuoi abbandonare gli studi? Dici a me di far lo stesso, perché è molto meglio scorrazzare per i campi, andare ai balli e ai pubblici ritrovi, anziché rinchiudersi per quattro ore al giorno in una camera, col maestro che ci predica sempre di studiare perché se no reste remo zucconi. Ma io, caro amico, non potrò mai abbandonare gli studi che sono la mia unica speranza di vivere onoratamente quando sarò adulto, perché come sai, la mia famiglia non è ricca di beni di fortuna.

Quanti ragazzi poveri ti invidiano, loro che avrebbero voglia di studiare, ma a cui Dio non ha dato il necessario, non solo per studiare, ma molte volte, neanche per sfamarsi.

Io li vedo dalla mia finestra, con che occhi guardano i ragazzi che passano con la cartella a tracolla, loro che non possono andare che alla scuola serale.

Tu dici che sei ricco, che non avrai bisogno degli studi per camparti, ma bada al proverbio "l'ozio è il padre dei vizi." Chi non studia in gioventù se ne pentirà amaramente nella vecchiaia. Un rovescio di fortuna, una lite perduta, possono portare alla miseria il più ricco degli uomini. Ricordati del signor Fran cesco; egli era figlio di una famiglia abbastanza ricca; passò una gioventù brillan tissima, andava ai teatri, alle bische, e finì per rovinarsi completamente, ed ora fa lo scrivano presso un avvocato che gli da sessanta lire al mese, tanto per vivacchiare.

Questi esempi dovrebbero bastare a farti dissuadere dal tuo proposito. Torna agli studi, caro Giovanni, e vi troverai tutti i beni possibili.

Non pigliarti a male se ti parlo col cuore alla mano, perché ti voglio bene, e uso dire tutto in faccia, e non adularti come molti.

Addio, saluta i tuoi genitori e ricevi un bacio dal

Tuo aff.mo amico Antonio

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Scuola e Università

LE BUONE UNIVERSITÀ CI SONO, COSTRUIAMO L'ECCELLENZA

di Francesco Coniglione 19.11.2010

Su università italiane e università americane ci sono alcuni luoghi comuni da sfatare. Non è vero che la situazione delle nostre sia così nera come si vuole a volte dipingerla. Né è vero che quelle di oltre oceano siano tutte eccellenti. La posizione dell'Italia nei ranking internazionali è del tutto adeguata al suo ruolo di settima potenza industriale del mondo. Se poi vogliamo creare anche da noi sedi di eccellenza, basta permettere la libera circolazione dei ricercatori. E aggiungere un rifinanziamento virtuoso degli atenei per i cosiddetti costi indiretti.

Lʼarticolo di Giovanni Abramo pone una questione importante: la valutazione del sistema universitario italiano e la necessità di costituire un polo di università di eccellenza o di “world-class universities”. Una giusta esigenza che deve essere inserita in un contesto conoscitivo circa la posizione delle università italiane e il sistema di classificazione di quelle americane, che costituiscono quasi sempre il punto di riferimento paradigmatico.

LUOGHI COMUNI DA SFATARE TRA AMERICA E ITALIA

Quando si parla di università di serie A e B si opera una semplificazione eccessiva rispetto alla realtà del sistema americano. La situazione è in realtà molto più articolata: vi sono tipologie di università molto differenti (ben trentatré per la Carnegie Foundation for the Advancement of Teaching), che vanno dalle “very high research activity” ai “Tribal colleges”. E quelle al top sono solo novantasei in tutto. Siamo quindi in presenza di un sistema di eccellenza che risponde a criteri ed esigenze funzionali diverse, in base ai servizi resi, alla qualificazione del personale docente, al tipo di titoli rilasciati, al numero di dottorati e così via.
In secondo luogo, la valutazione delle università italiane non è così disastrosa come spesso si è voluto dipingere negli ultimi tempi. Certo, in Italia i gruppi di ricerca migliori sono disseminati un poʼ qui e un poʼ là; e tuttavia non è del tutto vero che non sia possibile distinguere tra gli atenei. Secondo gli otto ranking attualmente prodotti a livello mondiale, vediamo che esiste una notevole convergenza: solo trentuno università italiane su novantacinque hanno un piazzamento in almeno due ranking (vedi figura 1). Se poi tra questi ranking vengono privilegiati quelli aventi carattere bibliometrico e che prendono in considerazione la qualità della produzione scientifica, vediamo che la performance delle università italiane migliora. Ad esempio, nellʼHeeact (Higher Education Evaluation and Accreditation Council of Taiwan) risulta che lʼItalia nel 2010 piazza ventinove atenei tra i primi 500, collocandosi al quarto posto a livello mondiale dopo Stati Uniti, Germania e Gran Bretagna, migliorando la propria posizione rispetto al 2007 (vedi figura 2). Non possiamo competere con le irraggiungibili trentacinque università americane che si collocano tra le prime cinquanta; e tuttavia rispetto alle altre nazioni del mondo la performance dellʼItalia è del tutto adeguata al suo ruolo di settima (o ottava) potenza industriale del mondo. Ciò conferma che se, da una parte, non ci sono punte di eccellenza paragonabili a quelle americane, tuttavia abbiamo un buon rendimento medio. Osserviamo infine, a beneficio di coloro che ritengono che solo le università private possano esser le depositarie dellʼeccellenza, che le università italiane presenti in tutti e otto ranking internazionali sono statali, ad eccezione della Cattolica di Milano: nessuna delle “prestigiose” università private è inclusa tra le prime 500.
Per quanto riguarda il problema del riconoscimento del merito, è importante notare che buona parte di quello che in Italia è il Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) è costituito nelle università americane dai finanziamenti alla ricerca, dei quali una percentuale sino al 40-50 per cento viene indirizzata ai cosiddetti “costi indiretti”, ovvero allʼateneo, per mantenere strutture, laboratori, biblioteche e personale di supporto (oltre a dare una retribuzione aggiuntiva ai docenti). In tal modo, le università che hanno i ricercatori più bravi e sono in grado di assicurarsi più contratti per ricerca scientifica, hanno anche maggiori risorse. Ciò favorisce anche una politica di accaparramento dei migliori ricercatori da parte delle università. Inoltre, a differenza di quanto di solito si sostiene in merito alla predominanza dellʼintervento privato e industriale nel finanziamento della ricerca scientifica, di fatto solo il 6 per cento dei fondi proviene dellʼindustria (vedi figura 3).

PER LA LIBERA CIRCOLAZIONE DEI RICERCATORI

E così veniamo al problema di come favorire anche in Italia una maggiore concentrazione di talenti nelle università migliori. Piuttosto che mediante una procedura dallʼalto, pilotata ministerialmente con la gemmazione di nuove università dove far convergere i migliori, la soluzione potrebbe essere una sorta di selezione naturale: permettere ai ricercatori migliori di migrare nelle università che, già da ora, sono in grado di offrire condizioni più vantaggiose per la ricerca e lʼavanzamento di carriera (e la retribuzione). Oggi ciò è impedito dal vincolo che lega il docente allʼateneo attraverso lo strumento del budget: chi vuole trasferirsi in unʼaltra università deve lasciare il proprio budget in quella di provenienza e quindi costringe la sede che lo accoglie a mettere a disposizione risorse aggiuntive. La mobilità risulta così impossibile e sono disincentivate le università che vogliono qualificarsi e migliorare i propri standard facendo vere e proprie “campagne acquisti” dei docenti e ricercatori migliori, assicurando loro “condizioni al contorno” più gratificanti. Con un meccanismo di “libera circolazione dei ricercatori” le università migliori verrebbero “votate con i piedi” non solo dagli studenti, ma anche dai docenti, mentre le peggiori sarebbero progressivamente abbandonate: si avrebbe una selezione darwiniana spontanea. Ciò potrebbe avvenire col semplice riassegnamento del corrispettivo budget del Ffo all'ateneo di accoglienza. Si potrebbe addirittura stabilire un “premio di attrattività” per gratificare con fondi aggiuntivi le università in grado di attrarre ricercatori. E ciò dovrebbe essere accompagnato da un “rifinanziamento virtuoso” delle università che, spostando i fondi aggiuntivi sui contratti di ricerca, dia loro più risorse mediante i “costi indiretti”, analogamente a quanto avviene nel sistema americano. Nel giro di qualche anno si verrebbero a formare in modo naturale delle università “di eccellenza”, senza discutibili operazioni verticistiche. A tale scopo è indispensabile la creazione di unʼagenzia indipendente per la valutazione dei progetti di ricerca da finanziare, in modo da evitare le solite camarille che ancora oggi sono di largo corso.
Due misure, non difficili da realizzare, che favorirebbero la qualificazione del sistema della ricerca verso poli di eccellenza, senza infliggere ulteriori traumi da riforme onnicomprensive a un sistema universitario già sotto stress da alcuni decenni.

Figura 1 – Le università italiane per numero di piazzamenti nei maggiori ranking internazionali

Figura 2 – Numero di università dei vari Stati per anno tra le prime 500 (Heeact)

Figura 3– Distribuzione per fonte dei finanziamenti in ricerca & sviluppo negli Usa nelle università e college nel 2008

martedì, ottobre 26, 2010

Corruzione, l'Italia sempre peggio
Per Transparency International è al 67mo posto


Bel Paese, nella classifica dei Paesi onesti, scivola di quattro posizioni rispetto al 2009 e finisce dietro a Ruanda e Samoa. Gli Stati Uniti escono dalla top venti, conquistando solo il 22mo gradino


Brutte notizie per il Bel Paese in tema corruzione. Secondo la classifica stilata dall'ong Transparency International, elaborata analizzando 178 Paesi e presentata stamane, l'Italia scivola al 67esimo posto nell'indice sulla corruzione. Il nostro Paese è arretrato di quattro posizioni rispetto al 2009 e di ben 12 sul 2008.

CHICAGO BLOG - Fiat: perché penso Fini abbia torto di Oscar Giannino


Su questo blog parliamo spesso della nuova Fiat e di ciò che Sergio Marchionne ha chiesto con energia di mettere al centro dell’agenda per nuove relazioni industriali, basate su uno scambio tra più produttività e più salario reale ai lavoratori. Dunque sapete come la pensiamo. Ma la battura pronuncita oggi dal presidente della Camera Gianfranco Fini mi ha molto colpito. Non intendo in alcun modo fara un processo alle intenzioni, parlare di messaggio elettoralistico e di calcolo preventivo su come la pensi la maggioranza degli italiani. Non ho molto dubbi sul fatto che l’onorevole Fini abbia toccato un tasto molto popolare, ricordando che la Fiat esiste grazie al contribuente italiano e che Marchionne sembra parlare più da manager canadese che italiano. Eppure, trovo che nel merito le parole di Fini siano profondamente sbagliate, per almeno tre ragioni. Provo a spiegarle.

La prima riguarda il passato. Per un secolo, dalle disinvolte manovre finanziarie del senatore fondatore – che per poco non lo portarono ad essere arrestato, su ordine del procuratore del re di fronte a denunzia dei soci fondatori come Biscaretti di Ruffia – alla prima guerra mondiale, dal fascismo al protezionismo del mercato domestico dell’auto, dal caso Alfa Romeo sfilata alla Ford per quattro lire fino ai lunghi anni pre crisi di incentivo pubblico all’acquisto di auto (di cui Fiat godeva scemando la propria quota nazionale, e sempre più si avvantaggiavano le case estere per i propri propdotti più competitivi) non c’è dubbio alcuno che le cose stiano come ha detto Fini. Di quel passato, è la politica a portare la responsabilità, da Giolitti a Mussolini, dalla prima Repubblica alla seconda. L’azienda ne ha beneficiato eccome, ma è la politica ad aver sempre creduto che così facendo la Fiat poteva essere indotta innanzitutto alla funzione di grande occupatrice di massa di manodopera, e a condizionarne l’allocazione degli impianti a fini anche di consenso, e non solo di sviluppo, com’è puntualmente avvenuto a conminciare da Termini Imerese (la cui scelta avvenne nel 1970…). La politica ha continuato a ragionare così anche quando la globalizzazione abbatteva le barriere dei mercati nazionali e la competizione diventava mondiale. Ogni volta che la Fiat si trovava a un passo dal fallimento e sempre senza riuscite strategie di partnership e di consolidamento mondiale, la politica ha creduto di poter rinviare un appuntamento con la storia che era invece inesorabile. Se anche il sindacato ha condiviso – come ha condiviso – lo stesso errore, le sue colpe sono meno gravi, perché era ovvio che difendesse la base occupazionale italiana. Di fatto, la politica italiana non ha mai capito che per difendere nella globalizzazione una manifattura dell’auto insediata nel nostro Paese, era preferibile adottare misure favorevoli all’insediamento competitivo nel nostro Paese anche di gruppi concorrenti. Esattamente come due decenni fa fece l’America, che aprì a Toyota e Honda che iniziarono a rpdourre a costi e retribuzioni fino a più di un terzo più bassi di GM, Ford e Chysler. O come il Regno Unito, che non ha più produttori britannici ma produce più auto che da noi in Italia. Quel passato è fi- ni- to. Finito non perché la politica italiana abbia capito. O perché nel frattempo – com’è avvenuto – Marchionne è riuscito a trasformare l’ennesima grande crisi in una grande occasione di ingresso nel mercato americano con la Chrysler affuidatagli da Obama proprio perché è “canadese” – o svizzero, se volete - assai più che italiano. E’ finito solo perché con Tremonti la linea della lesina alla fine ha detto no alla protrazione degli incentivi. Per quel che mi riguarda, meglio tardi che mai. Perché per tutti gli anni in cui alla Fiat si dava la stampella di Stato io ho sparato e stracriticato, e la cosa mi ha esposto a tutte le critiche del giornalismo accodato a Torino e alla politica. Ma allora mi aspetto che un politico avveduto dica che per fortuna quella lunga fase è fi-ni-ta. E aggiunga però che la lezione da trarne è che la politica ha sbagliato. Non che dica, come ha fatto Fini, che l’impropria influenza della politica sulla Fiat a questo punto deve continuare, in nome dei tanti favori fatti in passato.

La seconda ragione riguarda il presente. Marchionne ha semplicemente ricordato che nella nuova Fiat non può contuinuare a funzionare come in passato: quando cioè tutti gli stabilimenti italiani dell’auto complessivamente nel contro aggregato perdevano, e gli utili venivano invece dal Brasile e dalla Polonia. E’ stata questa, la realtà dei recenti anni: i posti di lavoro italiani di Fiat Auto erano sussidiati dai risultati realizzati dai lavoratori polacchi e brasiliani. Chi replica che Marchionne mente perché dovrebbe invece opensare a trattare col sindacato i nuovi modelli che non ha e magari anche allestimenti e fornitori, scientemente aggira il problema di fondo. Nel nostro Paese, qualunque grande gruppo manifatturiero esposto alla concorrenza ha dovuto delocalizzare quote crescenti della propria produzione. Perché alla bassa produttività effetto delle esternalità negatrive dovute ai sovraccosti energetici, delle infrastrutture e della logistica, si sommano relazioni industruiali basate su princìpi e regole vecchie, da mercato compartimentato autarchico e non globalizzato. Il nuovo presente che Marchionne addita ha una legge, “senza utili si chiude”. Non è una minaccia autoritaria: è una banale realtà. Da una politica avveduta – massime se poi prende voti di centrodestra - mi aspetto che questo nuovo presente vienga condiviso e spiegato agli elettori come la base di scelte nuove. Lo ha capito una parte maggioritaria del sindacato, con l’accordo interconfederale del 2009 e le nuove deroghe al contratto dei meccanici, lo ha capito perché sa che lo scambio porta oltre alla difesa del lavoro più salario reale ai lavoratori, non salario invariato come in Germania o minor salario come negli USA. Ma l’onorevole Fini, evidentemente, con le parole di oggi mostra di non averlo capito. Oppure comunque strizza l’occhio a chi dice che le cose non stanno così. Oppure ancora a chi chiede la cogestione e il sindacato nel cda. Ma strizzare l’occhio e dirlo esplicitamente è la stessa cosa, per quanto mi riguarda, quando mla scelta deve essere netta e o si sta di qua, o di là.

La terza ragione riguarda il futuro. Nel futuro, non sta scritto a lettere d’opro che l’Italia riesca a difendere la sua manifattura nell’auto, se non si adegua al mondo di ieri e di oggi in un solo colpo. Questa è la giustezza – secondo me – della posizione di Marchionne. Che non può con una bacchetrta magica recuperare il gap di investimenti e tecnologie che la magrezza delle tasche del socio di controllo non ha consentito a Fiat negli anni in cui tedeschi e giappionesi e francesi invece avevano risorse e le hanno usate scalando le classifiche mondiali. Eppure, ha ragione lo stesso, perché comunque l’operazione americana è avviata, ma se non vogliamo che Fiat diventi solo socio di controllo – speriamo ce la faccia- di Chrysler e resti in Polonia e Brasile, allora dobbiamo cambiare marcia e relazioni industriali in Italia. Io penso che l’Italia possa farcela, a difendere l’auto e ad avere magari anche stabilimenti di competitor. Ma ci vogliono politici che capiscano che cosa l’Italia deve fare per riappropriarsi di un futuro che oggi le è negato, dalle sue regole e costi. Non politici nostalgici di un passato sbagliato.